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Testi

Interweavings significa ‘intrecci’. Le nostre vite si svolgono e si riavvolgono in un rimbalzo continuo che si gioca all’interno della stessa ragnatela. L’energia che ci spinge lungo una traiettoria apparentemente imprevedibile e illogica agisce in una stessa rete. È partendo da questa convinzione cosciente che si sviluppa tutta la mia ricerca, nella consapevolezza che ogni cosa che riguarda un’altra anima riguarda me. Ogni gesto che io compio riverbera su ogni altra creatura. E viceversa. Siamo cioè tutti collegati. Non dal punto di vista moralistico e caritatevole, ma davvero perché si tratta di una legge fisica che regola l’universo. Questa consapevolezza è diventata urgente nel momento storico che viviamo. La mia installazione si gioca in dialogo con l’arcata cieca del chiostro, ed è costruita utilizzando corda rossa e bitte avvitate al muro, che funzionano come dei trasformatori e mostrano un campo energetico. È la stessa forza che guida le decisioni che pensiamo di poter delegare ad altri dimenticando che è il nostro modo di pensare e agire che produce e influenza le decisioni lungo una catena ai cui capi stanno gli umani che sembrano delegati a prenderle. Il destino degli uomini è, invece, un livello più alto di consapevolezza e conoscenza interiori. Siamo tutti attori di una migrazione e i nostri viaggi possono finire negli abissi oppure a degli approdi. In qualsiasi modo la si veda, non è dato tirarsene fuori: è una legge. Appunto.

Provate a camminare su un terreno dissestato, che manca sotto ai piedi, su cui si inciampa, affonda, il pensiero concentrato su ogni passo, sulle piante, e le dita, che cercano l’equilibrio. Un incedere che cancella nella mente e nell’anima ogni orizzonte e futuro, che diventa uno sprofondare in un hic et nunc affannoso dove tutti i paradigmi fisici e psicologici vanno in frantumi e si devono riorganizzare.

Una condizione metaforica che racconta la vita di ognuno, i tanti momenti in cui la superficie su cui si poggiano le fondamenta dell’esistenza, del corpo stesso, inizia a creparsi come il pack artico, una distesa di frammenti pericolosi dove tutto, a partire dal tempo, si relativizza.

Come sempre il lavoro di Letizia Cariello/ LETIA è un’arte mai fine a sè stessa, ma qualcosa che respira, senza didascalismi, di una sacralità simbolica, rendendosi iconica nel messaggio che incarna, percepito dall’artista in quelle dimensioni insondabili, inspiegabili, abissi di spiritualità con cui lei è in contatto. Un altrove dove l’artista coglie piccoli, eclatanti clic che si rivelano poi nelle sue opere. Sono illuminazioni, visioni. Lì, le coordinate spazio-temporali perdono di senso per trarne altri, di sensi, in una circolarità tra urgenza e bellezza, una rinascita continua. È un cielo infinito di pianeti che ruotano, di calendari concentrici che segnano ritmi e tempi diversi da quelli mortali, alla cui misurazione Cariello dedica da anni un ciclo aperto di opere, i suoi Calendari fatti di pietra, di stoffa e ceramica, cuciti e dipinti, incisi, scolpiti. Alcuni di loro, tutti diversi e in composizione mossa, accolgono all’ingresso dell’Angelicum – Mondo X in una grande installazione dal titolo EchellePlanetario.

Al centro del progetto per l’Angelicum si colloca l’installazione Terra!, in cui l’artista crea un cammino ricomponendo frammenti di piastrelle, materiali di recupero incontrati nei sentieri a lei familiari delle campagne di Casale Monferrato, dove le macerie sono reimpiegate mescolandole alla terra.

Un raccogliere, un riassemblare che evoca la cura dei restauratori verso i reperti, verso quelle tracce di vita, di vite ormai scomparse ma che ancora intridono i materiali superstiti, come particelle, cellule organiche, eteriche. Loro ne sono la memoria, a saperli guardare, a saperli ascoltare. È una pratica di LETIA quella del prendersi cura, sanare le ferite, riconoscendo la sofferenza come valore esperienziale, come passaggio esistenziale da cui trarre lezione e mai negare nel rifiuto, nell’oblio, in una sua chiave di visione positiva, di energia che continua a scorrere dal dettaglio al tutto.

“Tengo molto a condividere la condizione di temporaneità del dolore, cioè che non sia uno stato ma che sia una molla perché, attraverso l’esperienza, per esempio delle opere, ci si ritrovi a prendere atto della enormità delle risorse positive e creative che dormono in noi. Non è una consolazione ma uno sperimentare delle fonti energetiche e di appartenenza al mondo universo o, come si diceva nel medioevo, dell’universo mondo, in cui siamo tutti connessi. Ho pensato a Terra! come a una grande attraversata ideale, quella biblica del Mar Rosso così come tutti i viaggi delle migrazioni e dei migranti, nella Storia e oggi, attraverso la terra ferma e il mare. Noi siamo infinitamente, estremamente, gioiosamente potenti e questo attraversamento, che è la vita, ha il solo scopo di metterci in contatto proprio con quell’universo mondo che raramente teniamo presente. Nelle mie opere voglio che protagonista siano i toni di una sensibilità profonda attraverso cui percepiamo il grande essere che è in noi.”

L’artista condivide con noi questa umanità ed energia nei frammenti del pavimento che costruisce, elementi che ora le appartengono anche per la ritualità della pratica artistica con cui li ha coinvolti nell’opera. Camminare, osservare, raccogliere, ripulire, riporre, assemblare… Una condivisione con lo spettatore che si accentua nella performance partecipata a cui dà vita l’artista nei primi due giorni della mostra, animando l’installazione con passeggiate insieme al pubblico. Camminare sul pavimento accidentato di Terra! sostenuti dal suo aiuto, dal suo braccio. Un’esperienza di umanità, di comunità.

Così, Terra! diventa relazione una esperienziale diretta, le fratture di ognuno si rispecchiano e ritrovano in un’opera che diventa universale.

Quel cammino, quei frantumi sono i nostri, da tenere, preservare, ricomporre con cura, con amore. Parte dell’esistenza, non limite, ma passaggio, ponte verso altro.

LETIA non opera un camouflage sulle piastrelle, vuole che si veda la nuova composizione, come nella pratica orientale del kintsugi, (riparare con l’oro): prima i frammenti dell’oggetto rotto vengono incollati con una lacca giallo-rossastra, poi le crepe sono spolverate con della polvere d’oro. Sono preziose le cicatrici. Lo conferma la bellezza armonica dell’insieme plurale che anima Terra!, un paesaggio nella sua visione, il ritratto di un’umanità polverizzata nel DNA di ognuno di noi, tutti diversi e tutti simili, tenendoci per mano per andare avanti. La strada di frammenti evoca un altro ciclo di lavori dell’artista, Fratellini sorelline, una galleria di sculture dove sfila una fiumana di forme tutte uguali e tutte diverse di brocche, vasi, tazzine, caffettiere e lattiere trovate in giro tra mercatini e case di amici, unite a coppie da strette legature di filo rosso. Una struggente parata simbolica e antropomorfa di sapore balzachiano.

Lo sguardo che propone l’artista è quello che cambia la vita, provare a sollevarsi per vedere oltre: mettere insieme tutti i pezzi che siamo noi, che fanno la nostra vita interiore ed esteriore.

Intanto, attorno, nello spazio del teatro si diffonde un suono naturale di vegetazione mossa dal vento. Per suggestione, un’immagine si crea nella mente. Si vede ad occhi chiusi, in una dimensione interiore. È il suono di un campo di pioppi, protagonista di un video che si incontra, poi, proiettato nello spazio d’ingresso del teatro, Con Te. un’immagine tonda, che sembra la vista dall’oblò di una nave in mare. Un gioco tra i sensi per spingere ‘la vista’ a trasformarsi in immaginazione, oltre allo sguardo fisico.

La mostra, in tutte le sue opere, è un invito, e insieme un manuale di viaggio, per attraversare la vita. Una scala per salire, per innalzarsi dalla condizione materiale verso una spiritualità superiore che è libertà, conoscenza, ecco il significato intimo del titolo stesso della mostra, Echelle (scala).

“Ci sono quattro viaggi nella mostra: per mare (Con Te); per terra (Terra!); dentro di noi, nel mondo della quarta dimensione (il suono nella sala del teatro); in cielo (Echelle – Planetario).”

Una mostra che vorrebbe essere un dono, un nutrimento interiore che si pone in dialogo ed amplia il senso stesso del luogo che è l’Angelicum, un’architettura realizzata nel cuore di Milano da Giuseppe Muzio negli anni Trenta, un centro religioso francescano dedicata all’aiuto delle persone, basato sul concetto dell’accogliere e del nutrire non solo fisico ma metaforico, dell’anima soprattutto.

L’arte si trasforma in un vettore che comunica e amplifica il messaggio dello spirito francescano, si fa parola e immagine, emozione tra le persone.

Benvenuti all’incontro con Thinkerbell, la grande gabbia dorata che sembra essere appena stata appoggiata qui, sul pavimento del Grande Miglio, per accogliervi ed attirarvi a girarle intorno condotti dalla musica di Bach.

Sembra un oggetto misterioso, non vi pare? Una gabbia di ottone che riproduce esattamente la forma di una gabbia per uccellini stile Ottocentesco, priva del piano di fondo. Anche qui siamo di fronte al tema dello “spazio morbido”, non solo per la citazione dei tappeti. La gabbia è appoggiata su un mosaico di tappeti da esterni a motivi decorativi stile persiano con un intarsio rosso. Vedete anche delle tessiture rosse che ho costruito fra le sbarre e che ricordano il tracciato dei frattali oppure delle molecole. Sopra la gabbia un grosso anello, come quelli in cima alle gabbiette da viaggio. Una porticina permette l’accesso alla struttura.

La gabbia è alta quasi quattro metri ed ha un diametro di base di poco più di tre metri, calcolato per accogliere quattro violinisti che suoneranno in circolo rivolti verso gli spettatori, passandosi, come fosse una palla, una riscrittura della musica di Bach (anche in questo momento state ascoltando Bach), grazie alla collaborazione di Bazzini Consort e della Fondazione Teatro Grande di Brescia. Come quattro toreri, coraggiosi eleganti e precisi, i violinisti saranno legati fra di loro da un’unica fascia rossa: proprio come quella dei toreri.Anche il gesto di suonare ricorda la gestualità dei toreri. Sono in gabbia, ma la musica esce e si diffonde all’esterno delle grate dorate.

Sarete chiamati a concentrare i vostri sensi, per percepire la musica che proviene da Thinkerbell. Il contributo di Voi spettatori sta nel distinguere bene i quattro violinisti attraverso la tessitura rossa, così come siete necessari all’installazione, all’interno della quale è appoggiata la gabbia dorata, per attivarla con la vostra energia.

I musicisti suonano Bach. La musica è bella, e la musica a sua volta è “spazio morbido”, cioè spazio interiore. Unisce matematica, armonia, trasportabilità e visione, proprio come i tappeti. E vola, esattamente come le vele-tappeto intorno a voi. Il portamento dei quattro cavalieri-violinisti e la scultura che li isola rendono la loro apparenza una presenza superiore, quasi irreale. Forse pericolosa? La bellezza può essere pericolosa? Ma la gabbia ricorda bene le gabbiette dove le fanciulle e le Cocottes tenevano piccoli volatili, destinati a seguirle senza ingombrare troppo e al solo scopo di cantare.

Non si capisce bene se l’intrecciatura di rosso che rende parzialmente visibili questi quattro violinisti, sia lì per proteggerli o per ingabbiarli meglio. Questo non lo sapremo mai.

E neppure sapremo se in quella gabbia dorata (proprio l’espressione figurata: *GABBIA D. luogo o situazione che, pur offrendo benessere e privilegi, preclude la libertà di agire – Treccani vocabolario della lingua italiana), uomini e musica siano andati volontariamente, o se sia stato qualcuno a rinchiuderli lì dentro. Poco importa, in fondo. E forse potrebbero alternare momenti di un genere e di un altro, a seconda delle circostanze e degli stati d’animo.A seconda dell’interpretazione che darà ciascuno dei presenti nel pubblico.

I fattori certi sono:
– la bellezza;
– il complesso di tappeto + struttura della gabbia;
– il color oro della gabbia;
– la tipologia della gabbia che richiama esplicitamente in versione monumentale una gabbia da passeggio o da compagnia;
– la musica;
– la transitorietà dell’evento: suggerita dalla conoscenza indotta del limite di tempo in cui ogni performance dal vivo deve restare e dal fatto che la gabbia pare appoggiata momentaneamente sul tappeto che fa da pavimento alla struttura, ma che ci fa anche immediatamente pensare ad uno strumento di volo, come i tappeti delle favole.

Il grande richiama il piccolo, il piccolo a sua volta sfugge nella vista interiore. Anche la definizione di materia è variegata: c’è la materia densa della presenza corporea dei toreri-violinisti accompagnata dalla materia suono che si diffonde grazie alla conduzione eterica. Poi, quando saranno svaniti dalla gabbia, resterà la materia eterica della musica di Bach che continuerà a diffondersi dalla gabbia. Diffusa da un altoparlante la presenza sonora continuerà ad evadere le sbarrette della gabbia come fanno gli odori, i vapori, le presenze eteriche. Questi uomini e donne, dunque, ci saranno ancora, rappresentati da una testimonianza importante sulla natura dello spazio, del tempo e della materia.

NOTE IMPORTANTI:
Nel famoso cartone animato di Walt Disney, Thinkerbell è una piccola donna, molto coraggiosa e piena di passione che sembra segretamente innamorata di Peter Pan. È una creatura sincera e fedele che non si preoccupa mai di misurare il paragone fra le sue forze (le sue dimensioni) e ciò che sente sia urgente da fare. È la sola creatura volante oltre che al ragazzo senza tempo. È la sola creatura che Capitan Uncino cattura e tiene non a caso in una gabbia da canarini. È una donna a tutti gli effetti, nonostante le sue dimensioni, e si preoccupa molto del suo aspetto fisico, di essere bella. È anche una creatura vivente, che emette musica e parla grazie al suono del campanello (come se fosse anche uno strumento). Porta, infine, la polvere delle fate, materia evanescente che qualche volta diventa visibile cadendo dalle sue piccole ali. Forse non tutti sanno che, nel secolo scorso, era in uso concedere alla vita in cattività delle Cocottes il permesso di accudire un uccellino in una gabbietta. Il piccolo volatile spesso assolveva al compito di figlio simulato; di piccolo essere indifeso di cui prendersi cura per le ragazze che attendevano nelle loro stanze i ‘clienti’. Ci sono circostanze in cui il solo modo per dimenticare che si è in gabbia è guardare un’altra vita in gabbia: anche questa è una delle funzioni che subliminalmente leniva la condizione delle giovani ragazze. La gabbia serviva a distrarle, a dar loro un’illusione di contatto con la natura e l’aria aperta. Qualche volta, fungeva da consolazione transitoria per il mancato concepimento di un bambino e per il sogno frustrato di una maternità. Altre volte, era un palliativo al dolore per il dramma di un bambino perso, prima o dopo la nascita, oppure abbandonato in un orfanotrofio. Non avendo la vita di una Cocotte spazio di nessun genere per la presenza di un figlio.

Nel corso del tempo il “lavoro” di Letizia Cariello è andato assumendo caratteri che lo definiscono nel panorama della contemporaneità. L’uso di diversi media, il modo di combinarli, l’immagine che ne deriva sono pienamente inseriti nei linguaggi del presente, eppure il suo modo di essere e di fare non si definisce nell’ambito della cronaca, assumendo caratteri di profondità, radicati in una temporalità allargata. Porsi nel corso del tempo è anche uno dei temi che individuano il carattere di fondo delle sue realizzazioni, a partire dai “Calendari” con cui dalla fine degli anni Novanta accompagna le sue creazioni e si accompagna nell’affrontare il vivere, riportando le date successive al giorno di partenza di ciascuno di essi. I suoi “Calendari” sono, in certo senso, annotazioni rivolte al tempo che ci sta davanti, più che a quello del presente. In questa prospettiva essi si distinguono da una qualificazione diaristica o memorialistica. Nel suo esercizio quotidiano – e di quotidianità è composta molta parte dei suoi diversi procedimenti – diventano un modo di fissare in anticipo lo scorrere del tempo. Le notazioni, composte alla maniera di una scrittura manuale che sa di antico, incidono sulle diverse superfici, dalla carta alla pietra, l’iniziale del giorno e il numero corrispondente, con pochi o quasi nessun segno ulteriore, apparentemente in una volontà di riduzione del tempo a una successione dell’identico. Con questo modo di operare, però, è come se Letizia Cariello esprimesse la fiducia dell’abbandono a quanto abbiamo davanti a noi. Senza determinismo, ma con la scelta quasi ossessiva di una fedeltà all’azione quotidiana che corrisponde al suo modo di essere e di sentire. Il corso del tempo compare poi nelle documentazioni fotografiche di fiori, soprattutto rose, immortalate nel momento in cui si vanno corrompendo, mostrando segni di consunzione. Nella tradizione della natura morta, la bellezza del dettaglio rappresenta anche il momento in cui l’apice della maturazione si incrina, divenendo simbolo di transitorietà. Al corso del tempo si riconduce, in certo senso, anche l’uso del filo, quel filo rosso, di lana o di cotone, che simboleggia il sangue, o la vita, che scorre fra le cose, le parole, gli spazi in cui si sviluppa. Questo è l’altro fattore costante, adottato a contraddistinguere il suo fare, traccia visibile per riconnettere il qui e l’altrove, come nelle finestre o soglie – “Gates” –, che ha presentato in alcune recenti occasioni. Sagome di finestre, sulla falsariga di diverse forme stilistiche, dalla bifora medievale, alle austere finestre rinascimentali a quelle lineari dell’architettura moderna, elaborate a parete e quindi cieche, che riconducono al contatto con l’interno, a quell’interiorità alla quale Letizia Cariello ha dedicato numerosi lavori, nel ripensare al rapporto tra la dimensione più intima dello spazio chiuso, della stanza in cui si ritirò Caterina da Siena o delle celle monastiche, che non è separato però dall’esterno, entrando in relazione con l’aperto, l’infinito, l’assoluto. Proprio questo contatto, fra la dimensione intima, di una indagine interiore, ma non autobiografica, e la relazione con l’esterno, in proiezione mondana o universale, è il motivo che forse meglio incarna la ragione dell’operare di Cariello. Nello spazio ridotto di un luogo chiuso, una stanza, una scatola, o anche il centro di un labirinto, si può percepire lo spalancarsi della luce, l’apparire di quell’infinito in cui si ribalta l’interiorità. Un processo che può apparire “mistico”, rispetto all’operare che si nutre dell’istante e che dialoga con le forme dell’arte, del presente e di tempi trascorsi. Il suo modo di agire rispecchia infatti l’ossessività di forme dell’arte recente, nell’insistere su motivi e costrizioni mentali che diventano stile, ma questa stessa ossessività può rispondere a una connotazione “religiosa”. Tali termini, a lungo rifuggiti e oggi quasi abusati, nel suo modo di operare valgono a descrivere un fatto, più che a sottolineare un’aspirazione. Un modo di agire ripetitivo e quasi meccanico non può che essere sorretto da una ragione superiore: quella della condizione creativa, fondata in un rapporto tra la perizia manuale e il rigore morale, o quella di chi compie una scelta di vita appunto “religiosa”. L’incontro tra questi due mondi, per altri versi lontani, ritorna in diversi momenti dell’opera di Letizia Cariello, senza essere legato a ragioni liturgiche o a una committenza ecclesiastica, ma come soggetto che nella semplicità del fare trova la sua coincidenza con mondi e modi di essere che mantengono la loro indipendenza, la loro rispettiva “laicità”. Da questo scaturisce, per esempio, il Libro del silenzio, composto riportando in un numero limitato di copie una diversa combinazione di “Calendari”, frammenti di un testo che ha lo stile di una lettera rivolta a chi si immerge nella lettura, petali di rosa e di fiori di campo, immagini di particolari tratti da opere del passato, con la presenza del filo rosso che contraddistingue la linea narrativa, per realizzare il quale Cariello si è affidata alle monache di clausura dell’abbazia di Viboldone, che ne hanno cucito e assemblato i materiali. Tra i lavori che caratterizzano un atteggiamento apparentemente lontano dai rumori dell’attualità, tale operazione sembra definirsi propriamente in una cornice religiosa, che non è però da intendere in senso riduttivo e settoriale. L’atteggiamento con cui Cariello si relaziona a un tale condizione appartata e discreta scaturisce naturalmente dal modo in cui le cose prendono forma. Pur nel ricorso, in alcuni dei suoi progetti, a forme e strumenti di tale carattere, perciò, l’insieme della sua opera, composta di molte e diverse soluzioni, che comportano un contatto fisico con le cose come la possibilità di riprendere un dialogo mentale con la storia dell’arte o con qualche testo letterario o filosofico, risponde a una prospettiva che contempla, nel presente, il senso di un infinito che è filosofico e cosmico, oltre che religioso. Su questa linea si possono interpretare soluzioni come quella realizzata recentemente a Milano, nella “vetrina” di Building Box, dove Cariello ha tracciato, questa volta con la lana bianca e la vernice fluorescente, una ragnatela di fili che riflettono la sagoma di una costellazione, Chirone, con cui ritornare al concetto di un ordine cosmico, citando il Nous platonico. Anche questo, come altri suoi interventi concepiti in relazione allo spazio, alla forma di racconto in cui svilupparsi, alle sollecitazioni di forme e sensazioni su cui riflettere, esprime una progettualità che nasce dalla forte sensibilità dell’artista per l’ascolto, il chinarsi sulle minime cose della quotidianità, per scoprirne quelle ragioni che superano le strettoie del presente.

Tutto è uno.

Il cielo e la terra, i dettagli e l’insieme, l’umanità e la natura.

È questo che Letizia dice in ogni sua opera. Lo ha detto anche all’inaugurazione della sua mostra, al pubblico, a me, che le chiedevamo spiegazioni, illuminazioni, sulle sue opere, su qualcosa, la vita, forse?

Dagli artisti ci si aspetta qualcosa, di illuminante, perché loro sono artisti. E gli artisti sono creature speciali. Altrimenti non sono artisti.

E Letizia, che sempre dice di non aver risposte, di non possedere verità, né di volerne dare, dopo qualche minuto di silenzio, dopo qualche piccolo accenno alle opere, alla mostra, se n’è uscita con questa frase: tutto è uno.

Un’epifania: in quell’istante, ho veramente capito il senso della mostra, il senso del lavoro di Letizia, che già incarna quella visione antichissima assunta come anima, e utopia, dal «nuovo» ambientalismo. Non è più la difesa di una Natura intesa come «altro» dall’uomo – scrive l’antropologo Adriano Favole – quanto piuttosto la richiesta di riconoscimento dell’interdipendenza tra gli abitanti di Gaia, la Terra, umani e non umani. Una nuova era, il Koinocene, in cui l’essere umano saprà riconoscere la somiglianza, la comunanza, la partecipazione, le relazioni (termini racchiusi nel sostantivo greco koinotes e nell’aggettivo koinos) tra tutti gli esseri viventi e non viventi che abitano il pianeta.

Questo mi porterò via, nel cuore, nella memoria, da un progetto che è stato un’esperienza connotata da una strana e inquietante bellezza, del tipo di cui parla Rainer Maria Rilke nell’incipit della prima delle sue Elegie Duinesi

Chi, se io gridassi, mi udirebbe mai dalle sfere degli angeli? E se pure d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore; io languirei della sua piu forte presenza.

Poiché il bello non è nulla,

null’altro che, del terribile, principio che noi appena sopportiamo ancora, e tanto lo ammiriamo, perché esso disdegna, quieto, di distruggerci. Ogni angelo è tremendo.

Questo è il regalo inconsapevole di Letizia, del suo essere sempre alla ricerca, non cercando ma trovando, in attesa, in ascolto, porosa e impermeabile.

Una porta, visionaria, fatta non solo di vista ma di sguardi interiori, a occhi chiusi. A partire dall’ascolto del luogo, del Filatoio di Caraglio, che per lei è stato un naturale scenario, un incontro familiare e affine, tra passato e presente, nella pratica del tessere, nelle figure femminili che hanno incarnato questo fare artigianale e domestico nei millenni e nello specifico del setificio.

L’artista lavora con il ricamo e la tessitura, con il filo inteso come una linea continua ideale, un operare fattosi archetipo, che dalla preistoria, in ogni cultura, cuce, unisce, cura e ripara, al traversa il tempo. Dimensione intima, solitaria e insieme collettiva, comunitaria. Gesti delicati e faticosi che accomunano anche tutte le donne che sono passate nel Filatoio e Letizia.

La mostra Il tuo cielo è verde racconta il percorso artistico di Letizia, la segue negli anni e nelle serie, nelle pratiche che sono ritualità, un progetto dove ogni sala è stata pensata come un’installazione site specific nello spazio, inteso come dimensione storica, architettonica e spirituale. Un dialogo con il luogo e anche con il tempo in corso, questo nostro momento comune provato dall’esperienza pandemica e dalle sue conseguenze. In un mondo che non sarà più lo stesso.

Ne sono un omaggio i Cancelli, due vecchie grate di finestre che, proprio durante il primo lockdown, l’artista ha recuperato in una cascina nella zona di Casale Monferrato, trasformandole in telai in divenire per una tessitura aperta. Cancelli che vogliono essere un ricordo, una sorta di piccolo monumento poetico alle vittime, ma anche una speranza sul futuro, tutto da tessere, insieme. Un’ immersione, quindi, nell’ascolto intimo di una condizione che ci ha reso tutti uguali, che ha manifestato la nostra interdipendenza.

La trama realizzata in orizzontale crea un movimento ottico che ricorda il gesto stesso della tessitura, evocata simbolicamente da un vecchio telaio che condivide la sala espositiva, appartenente alle collezioni del Filatoio, da cui sembrano scaturire i suoni di lontane tessiture, rimasti impigliate nel legno.

Proprio come una tessitura complessa e antica, nel opera di Letizia si intrecciano una serie di temi inscindibili nel significato e valore finale che costruiscono, mai didascalici ma empatici, suggestivi.

Primaria, la visione consustanziale del corpo fisico e dell’esistenza tangibile avvolte e compenetrate da materie sottili e invisibili, cioè la matrice eterica energetica della sostanza corporea, che va oltre la vita mortale e biologica.

Cosi, l’idea della trasmutazione, della rigenerazione che è non Solo il curare ma soprattutto il lasciare che le cose facciano il loro corso naturale, evolvano, scorrano circolari. Come il giorno che segue la notte che segue il giorno, senza inizio né fine.

Poi, il grande tema del tempo, che è un paesaggio continuo, una volta celeste per il poiein di Letizia. Insieme ad esso, quello del confine, inteso come limite da oltrepassare, passaggio tra luoghi e, appunto, tra tempi, attraverso le dimensioni parallele che costituiscono l’esistenza magica di ciascuno.

Temi che sono particolarmente rafforzati dal luogo stesso del Filatoio e dalla sua storia, cosi come dal suo territorio.

Un genius loci che sviluppa con le opere una conversazione spontanea.

Ne è un’icona il video che dà il titolo alla mostra, Il tuo cielo è verde, la ripresa di un campo di grano ancora verde, attorno a Casale Monferrato, luogo familiare per l’artista, dove l’ha visto crescere ogni giorno nelle sue passeggiate durante il lockdown. Un mare verdissimo che un pomeriggio si è animato, mosso da una improvvisa folata di vento. Ne è nata una sequenza video emozionante di colore puro, che apre l’orizzonte e si ricollega ai campi di Caraglio, anch’essi una volta verdissimi perché intensamente coltivati sia con i gelsi (punto di partenza di tutta la filiera produttiva del filato della seta, dalla coltivazione dei gelsi nelle campagne circostanti, per l’allevamento dei bachi da seta, alla lavorazione e alla realizzazione del prodotto finito, memoria storica ripercorsa nel Museo del Setificio Piemontese ospitato all’interno del Filatoio), sia con la canapa, coltura, tradizione ed economia della zona.

Il video evoca il territorio che si apriva attorno al Filatoio anche nella sua accezione di luogo di limite e controllo per coloro che vi lavoravano, dentro e fuori le mura. Una costrizione imposta sia alle donne operaie, che venivano controllate perché non portassero fuori bachi e tessuti, mantenendo segreto e speciale il prodotto della lavorazione della seta, sia ai contadini che coltivavano le terre. Il Filatoio stesso ha una struttura a fortino, con mura e torrette di con-trollo, che ben esprime il tipo di rapporto e di clima che vigevano all’interno dei suoi spazi e della sua organizzazione umana e lavorativa.

Diverse eppure soffuse da una corano armonia estetica, semantica e spirituale, le opere si susseguono nelle sale, in un canto ricamato che rende il corpus espositivo un’unica, organica installazione, coinvolgendo il visitatore in un rapporto sensoriale di emozioni e visioni personali.

Nella “Sala del telaio”, i Cancelli dialogano con i Gates, opere piene di rosso, che aprono finestre sulle pareti a cui sono appoggiate, sfondano lo spazio materiale con i loro perimetri ovali, rettangolari, a bifora. Bassorilievi dalle trame astratte sviluppate a mano libera, prima su Carta da lucido, poi fissando il disegno su tela con chiodi da maniscalco, quindi tratteggiando con la tessitura. In essi, Oriente e Occidente si fondono, familiari agli arazzi, alle vetrate gotiche, ai mosaici bizantini, ai rosoni romanici. Eppure, questo loro corpo cosi denso, anche di evocazioni, viene smentito dalla loro identità di passaggi, di porte. Sembra, infatti, contengano il vuoto negli spazi che fanno da sfondo al ricamo, fessurazioni della superficie attraverso cui passa lo sguardo e l’aria. Un effetto ottico che stimola una vista interiore. Della stessa famiglia di cui fanno parte le soglie pittoriche di Rothko e l’infinito di Leopardi. Attraversamenti spirituali e mentali che diventano percezioni fisiche. Una mobilità continua questo transito, una dissolvenza che prosegue nella “Sala del pavimento a seminato”, dedicata ai Calendari: lo spazio si smaterializza letteralmente, risucchiato dal fluire di cerchi che sono corpi celesti e roteano tra pavimento, pareti e soffitto. I Calendari, dalle diverse misure e materiali, su cui Letizia ha disegnato, scritto, scolpito e ricamato seguendo un codice simbolico e dando un pome al tempo nel momento in cui accadeva, danno presenza ai molti tempi che compongono l’idea di tempo. Un tempo biografico, segnato come un diario personale, con le sue pause, i suoi ritmi, le sue note, che contiene anche la pluralità di tutti quei tempi con cui viene in contatto in ogni momento del suo quotidiano. Le persone vicine e lontane, la cronaca, i ricordi, il futuro.

Una complessità che rispecchia la macchina del tempo, perfetto e geniale meccanismo di meccanismi, connessa direttamente a un altra complessità e a un’altra macchina ancora, quella della filatura del filo di seta, ricostruita nell’ambito del Museo del Filatoio di Caraglio.

Un tempo circolare mosso per magnetismo dai tondi ipnotici dei Calendari, che s/corrono attraverso i loro giornisettimanemesianni davanti agli occhi dello spettatore. Un tempo che torna, infinito, perché nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto è sottoposto a una continua metamorfosi.

Una gabbia di ottone riproduce esattamente la forma di una gabbia per uccellini stile XIX sec. Priva del piano di fondo.

La gabbia è appoggiata su un tappeto da esterno a motivi decorativi stile persiano.

Sopra la gabbia, un grosso anello come quelli in cima alle gabbiette da viaggio.

Una porticina permette l’accesso alla struttura.

La gabbia è alta quasi quattro metri ed ha un diametro di base di  poco più di tre metri, calcolato per accogliere un pianoforte a mezza coda e una pianista, tanto bella quanto brava che lo suonerà.

Anelli trasversali in forma di centine piatte tengono insieme le bacchette della gabbia.

Una tessitura di cordoncino rosso  è tessuto orizzontalmente come se fosse una intrecciatura di vimini per una fascia della gabbia, rendendo così necessario uno sforzo di concentrazione visiva per distinguere bene la sagoma della donna seduta al piano.

Questa donna suona, la sua musica è bella, il suo portamento e la scultura che la  isolano rendono la sua apparenza una presenza superiore. Ma la gabbia ricorda bene le gabbiette dove le fanciulle e le cocotte tenevano piccoli volatili, destinati a seguirle senza ingombrare troppo e al solo scopo di cantare.

Non si capisce bene se l’intrecciatura di rosso che rende parzialmente visibile questa pianista, sia lì per proteggerla o per ingabbiarla meglio.

Questo non lo sapremo mai.

E neppure sapremo se in quella gabbia dorata (proprio l’espressione figurata: *GABBIA D.  luogo o situazione che, pur offrendo benessere e privilegi, preclude la libertà di agire – Treccani vocabolario della lingua italiana), la donna e la musica siano andate volontariamente , o se sia stato qualcuno a rinchiuderle lì dentro.

Poco importa, in fondo. E forse potrebbero alternare momenti di un genere e di un altro, a seconda delle circostanze e degli stati d’animo. A seconda dell’interpretazione di loro darà ciascuno dei presenti nel pubblico.

I fattori certi sono : la bellezza ( della donna e della musica ); il complesso di tappeto + struttura della gabbia ; il color oro della gabbia ;  la tipologia della gabbia che  richiama esplicitamente in versione monumentale una gabbia da passeggio o da compagnia; la musica ; la transitorietà dell’evento: suggerita dalla conoscenza indotta del limite di tempo in cui ogni performance dal vivo deve restare e dal fatto che la gabbia pare appoggiata momentaneamente sul tappeto che fa da pavimento alla struttura ma che ci fa anche immediatamente pensare ad uno strumento di volo, come i tappeti delle favole.

Il grande richiama il piccolo, il piccolo a sua volta sfugge nella vista interiore. Anche la definizione di materia è variegata: c’è la materia densa della presenza corporea della pianista accompagnata dalla materia suono che si diffonde grazie alla conduzione eterica. Poi, quando lei si sarà alzata e sarà svanita dalla gabbia, resterà la materia eterica della sua musica.

 Diffusa da due altoparlanti foderati della stessa stoffa del tappeto, la presenza sonora continuerà ad evadere le sbarrette della gabbia come fanno gli odori, i vapori le presenze eteriche.

Lei, dunque, ci sarà ancora, rappresentata da questa testimonianza importante sulla natura dello spazio, del tempo e della materia.

Thinkerbell è un progetto che nasce anche come un potenziale passaparola.

L’installazione è pensata, nei suoi due momenti – quello della performance della pianista e quello della diffusione sonora successiva, senza più pianoforte e pianista nella gabbia – come una sorta di staffetta, ovvero di potenziale susseguirsi indefinito di musiche che, alla fine del tour,  potrebbe perfino diventare un cd, una colonna sonora di sonate in gabbia o dalla gabbia o attraverso la gabbia . La pianista si fonde con la musica, il concetto di corpo è aperto alla verità del corpo eterico e della risonanza della musica nel corpo e attraverso il corpo della pianista. Ci domandiamo dove finisca l’uno dove inizi l’altro e chi gira questa invisibile clessidra che fa sì che uno travasi nell’altro e viceversa. Ci domandiamo cosa sia la bellezza , cosa fare di questo incandescente fatto. Non è importante dare una risposta . Scopo dell’opera è scrivere la domanda nell’invisibile degli ascoltatori, nella cassa di risonanza della loro presenza corporea in un infinito gioco di rimandi che , infine, ci porta dalla bellezza al tempo e dal tempo alla bellezza, così come ci aveva portati dalla pianista alla musica e dalla musica alla pianista

Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu? perché sono qui, e perché non sono lì? quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio? la vita sotto il sole è forse solo un sogno? non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro? c’è veramente il male e gente veramente cattiva? come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare, e che, una volta, io, che sono io, non sarò più quello che sono?

Peter Handke, Elogio dell’infanzia, 1987

Si chiede il poeta: perché io sono io, e perché non sei tu? perché sono qui, e perché non sono lì? quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio? E proprio come fa il poeta, nella vita di tutti i giorni ci troviamo a chiederci il perché delle cose, a domandarci quale sia il vero motivo di tutto quello che accade attorno a noi. Col tempo, apprendiamo che il senso della nostra crescita individuale e spirituale risiede proprio nel continuo bisogno di porsi delle domande, anche se molte di queste non avranno mai risposta. E ci si ostina nella ricerca di un riscontro logico perché convinti che anche per i più grandi e complessi interrogativi sulla nostra esistenza ci sia una spiegazione, ancorché sfuggente ma pur sempre rintracciabile. Viviamo la nostra umana imperfezione come una condanna a cui non ci si arrende; ne facciamo stimolo continuando a domandarci dei misteri dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, a trovarne le cause e lo scopo. E ci interroghiamo su come quella leggera brezza, quella tenue sensazione, quel dolce sussulto, possano riuscire a muovere l’intero percorso della nostra esistenza. Se il poeta si pone le domande, il regista ci regala una visione, quella di una città triste e grigia fatta di uomini che si interrogano sui misteri della vita e placano le loro ansie tra le pagine dei libri della grande Biblioteca centrale cercando le risposte; e di angeli, di entità spirituali che li accompagnano in questa ricerca, li ascoltano e li sorreggono nelle fasi cruciali della loro esistenza.

Letizia Cariello, con il suo lavoro, ci pone davanti a un interrogativo, che è lo stesso che assilla il poeta. Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio? Ed ecco che l’artista sembra suggerirci una risposta. Letizia si fa tramite di una volontà più ampia, per una Verità che è intima e, al tempo stesso, assoluta. “Attenzione, non sono più io che parlo!”, ammoniva Hanna ai suoi compagni con i quali condivideva l’esperienza della guerra e del nascondersi dal terrore nazista. Attraverso lei, si manifestava la Luce che guidava e infondeva il coraggio a tutto il gruppo di amici per sopravvivere nonostante l’orrore attorno a loro. E come Hanna, protagonista dei Dialoghi con l’Angelo di Gitta Mallasz, Letizia eleva la sua arte a uno strumento di comunicazione con l’Altro, a una connessione con quella realtà superiore che governa il nostro flusso di esistenza.

L’arte di Cariello, non si sbaglia a dirlo, è un’arte di compartecipazione. Ogni sua opera è un dispositivo per congiungersi con il sé più profondo. Il suo pensiero è puro ed è mosso da una forza radicale. Cariello crea assolvendo a un atto sciamanico e in questo ricorda la lezione di Beuys, il suo modo di rapportarsi alle energie spirituali e fisiche che governano il mondo sensibile. Di certo Cariello non indaga il primario della natura come il suo collega tedesco ma preferisce vivere le connessioni spirituali nell’intimità di un focolare domestico e nel confronto con i suoi affetti più cari. Ed ecco che per lei assume importanza il continuo confronto con il sacro: un riferimento che lei ritrova casualmente in un gesto della vita quotidiana o che ricerca volontariamente attraverso la pratica dell’isolamento e del silenzio; o ancora che indaga nel continuo rapportarsi al Santo, ovvero all’umano che sulla terra ha portato le tracce del contatto con il divino e che così ci ha suggerito nuove strategie per la ricerca della Verità.

In Fuso Orario, l’artista ripercorre lo straordinario passaggio mistico che stiamo attraversando con l’ingresso nell’Era dell’Acquario, l’età mitica che avvierà un processo di rinascita per la coscienza comune e un’evoluzione spirituale capace di condurci alla piena consapevolezza. Sui muri della Galleria Studio G7 Cariello propone un lavoro site-specific dal titolo Sistema Sottile, in cui la trama di fili intrecciati ripropone l’immagine della mappa del cielo com’era lo scorso 21 dicembre, il momento della grande congiunzione astrale tra Giove e Saturno che ha annunciato l’ingresso in questa nuova Era. Sistema Sottile è un’opera-manifesto, radicale nella sua presa di posizione nei confronti della ricerca precedente di Letizia Cariello. Con questo lavoro, l’artista segna uno spartiacque che ci prepara a una rinnovata esperienza creativa, un apice che si nutre delle sperimentazioni degli ultimi anni. Il filo rosso, che da sempre contraddistingue il suo lavoro, per la prima volta si colora e si differenzia in un incontro di sette diverse cromie che riproducono le sottili vibrazioni della manifestazione energetica dell’anima umana. Il riferimento, come ben si coglie già nel titolo scelto, è al complesso energetico sul quale si innestano le molteplici dimensioni dell’essere umano, a quella luce spirituale, emotiva, fisica e mentale che egli è in grado di emanare e che è diretta estensione della sua anima fuori dal corpo. Seguendo la via della conoscenza indicata dalle teorie esseniche, l’artista ci pone davanti alla visione di un’energia che è cosmica e spirituale, che risuona nell’universo e la cui eco ribatte nel nostro Io.

Lo stesso schema astrale del 21 dicembre è riproposto in maniera speculare nella seconda installazione presente in mostra. Alla parete opposta sono disposte sette sculture che continuano la serie dei Volumi, opere che nella loro essenza e forma per l’artista richiamano i principi della Geometria Spirituale. Alla sommità di ciascun solido, Cariello pone i suoi Calendari, qui proposti come dischi in marmo policromo inciso. Nella sequenza di numeri e lettere che è riportata su essi, si svela il senso di una meditazione personale sul tempo e sul suo scorrere. Il più duro dei materiali accoglie nella sua fermezza la traccia di un concetto che è sfuggente per sua stessa definizione. Quello che ritroviamo scolpito sul marmo è però il tempo che Bergson indica della coscienza, un tempo soggettivo, fatto di un fluire continuo e non scomponibile di eventi, contrapposto al rigore della misurazione scientifica. Quello di cui ci parla Letizia è il tempo dell’Io, che accoglie nel suo scorrere la concessione all’errore, al ripensamento, all’intenzione mancata. Il suo fluire non è lineare né tanto meno circolare. È un andare e venire tumultuoso che si rapporta al ritmo della propria intimità. È un Fuso Orario individuale che segna la differenza tra le nostre esistenze. Cariello si pone un obiettivo, una data nel futuro, e la raggiunge raccontando il suo percorso interiore in quel codice alfanumerico che noi vediamo inciso sul marmo. Non si deve commettere l’errore di volerlo decifrare perché non è questo il modo corretto di leggere il lavoro di Letizia. Anche l’elemento filo ci riporta alla dimensione del tempo, divenendone metafora; attraverso esso, gli oggetti si riconnettono e ricreano una relazione tra loro. Non è Cariello che innesta questo rapporto; l’artista se ne fa solo interprete. Il filo, per Cariello, è uno strumento che mette in evidenza i rapporti già esistenti tra le cose, tra le persone. Non serve a creare relazioni in maniera arbitraria perché l’artista non vuole ergersi a un Demiurgo di un suo proprio mondo.

La sua è un’arte che possiamo dire concreta, ancorata saldamente alla realtà dell’esperienza sensibile e a una nuova percezione della sua complessità. Calendari, oggetti d’affezione, alberi, strumenti musicali, immagini: Letizia li collega tra loro seguendo l’idea di un tempo e di uno spazio che arriva dalla sua interiorità, dal sentire di quella che lei definisce “camera della mente”, sull’esempio di Caterina. L’esperienza della Mistica senese ci ha mostrato la via per un luogo interiore in cui spazio e tempo sono diversi e in cui si è a contatto solo con se stessi. Lì, in quel rifugio per l’anima, siamo in grado di percepirci per quello che siamo, per la nostra essenza di essere senza tempo e fuori dallo spazio, senza un prima e senza dopo, ma connessi nel flusso continuo dell’esistenza.

E così tornano di nuovo alla mente le domande del poeta, quella sua ricerca di un senso compiuto alla nostra presenza nel flusso del tempo e nello spazio eterno. Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare, e che, una volta, io, che sono io, non sarò più quello che sono? Se lo chiede il poeta e, in fondo, ce lo chiediamo anche noi. E l’artista ci guarda, e sembra così tornare a suggerirci una risposta che non conosce ma di cui si fa tramite. In quelle forme che Cariello crea guidata dal suo sentire, riusciamo così per un attimo ad accostarci a un piccolo indizio per questo indefinibile dilemma.

Leonardo Regano

I 12 libri + 1 sono stati assemblati per mano delle Monache Benedettine dell’Abbazia di Viboldone, a cui mi sono rivolta con una richiesta inconsueta. Ho metaforicamente bussato alla porta di uno dei più importanti laboratori di restauro dei libri, come una pellegrina. Non un qualunque laboratorio, però.

A Viboldone, le Monache Benedettine praticano quotidianamente la Regola del Santo Fondatore che prescrive lavoro silenzioso, ritmato da preghiera e meditazione, ancorato alla fedeltà ad una promessa, gestito nel rispetto di una intenzione: quella per cui ciascuna delle sorelle abbraccia e conferma una dimensione interiore si potrebbe dire secondo per secondo (qualcosa di molto vicino a come intendo la mia pratica dell’arte).

Un libro è occasione di sguardo e di ascolto e possibilità di accogliere nel proprio spazio interiore un Pensiero. Che sia in segni grafico-alfabetici o in immagini è secondario, dal momento che tutto è immagine in un libro: questo ho pensato quando gli Editori mi hanno invitata a pensare ad un mio libro per la loro collana.

Così, volendo costruire e ricostruire poi per altre dodici volte un Libro del Silenzio (non sul silenzio), il posto più coerente dove potessero essere assemblati i fogli per essere materializzati in un libro, è un luogo in cui il silenzio si pratica e si vive, di modo che quella dimensione potesse essere veramente respirata assorbita e custodita nella materiale presenza di ogni oggetto-libro.
Dopo qualche mese di scambi epistolari (elettronici, le monache hanno accettato l’incarico e così, dopo non so quanti secoli, eccole di nuovo a cucire con il filo (rosso) le pagine che ho loro consegnato e rivestire poi questo incunabolo contemporaneo del broccato fornito.

Le pagine del Libro del Silenzio sono di carta serigrafata con il mio calendario. Ho scritto un testo e l’ho trascritto a mano. E così sarà per ciascuno dei dodici libri che seguiranno la prova d’autore. Ci sono petali di rose; spine di rose; fiori pressati; gocce di lacca per unghie rossa; ricami con filo rosso; piume di uccelli; disegni a penna ad inchiostro nera ed a penna ad inchiostro rossa.

Per ciascun libro, c’è una tasca dove è inserita una mia fotografia che ritrae dettagli silenziosi di alcune pitture storiche. Per ogni libro una fotografia diversa. Per ogni volume la storia è uguale ed è diversa. Stessi elementi, formato e numero delle pagine. Stesso racconto, scritto sempre a mano da me. E tuttavia per ognuno dei 12 libri che seguono la prova d’Autore, gli stessi elementi si susseguono in sequenze e organizzazioni ogni volta differenti. Allo stesso modo, ogni libro sarà ricoperto di broccato, ma non sempre lo stesso broccato. Elementi uguali perché appartenenti alla stessa specie, però diversi perché individui. Ogni incunabolo è un individuo che appartiene alla stessa specie: così come si dice delle rose, che sono tutte rose ma ciascuna è diversa.

Una regola sola guida il lavoro ed è l’obbligo della lentezza. O forse sarebbe meglio dire del Tempo adatto . Come si potrebbe dire del silenzio, che in un certo senso si può definire un tempo adatto. All’osservazione, all’ascolto – anche di sé -, alla gestazione di un pensiero.

Letizia Cariello dice che il disegno è la matrice del pensiero, e che per ogni cosa c’è un prototipo interiore, preliminare ad ogni azione. Allora disegna sette diverse finestre sulla pareti dello spazio espositivo. Sembrano dunque esserci suggestioni neoplatoniche nella sua ispirazione. Era alla ricerca di una Ur-finestra, una finestra-tipo, l’idea platonica appunto, una forma archetipica, sovrastorica. Per farlo ha interrogato la storia e selezionato sette tipologie di finestre che ne sono fortemente portatrici, del senso della storia. La bifora, in uso nella tarda antichità, nella Ravenna bizantina, poi nel Gotico di cui è diventata l’emblema (ovviamente replicata a josa nelle ville neogotiche di fine Ottocento). La finestra centinata con l’arco a tutto testo, che vediamo già nel Colosseo, l’altra sormontata da un timpano come nei templi greci e romani, poi tornata in auge fra Rinascimento e Barocco. La Serliana, da Sebastiano Serlio che ne tratta nei suoi Sette libri di Architettura (1537-74), la più complessa, un’apertura centrale ad arco e due laterali trabeate, anch’essa antica, originata nelle province orientali dell’Impero romano, ripresa in epoca manierista e poi da Palladio, che adotta anche la Termale, cosiddetta perché per prima la si vide nelle Terme di Diocleziano. C’è poi quella che noi (lei ed io) arbitrariamente abbiamo definito Modernista, la spoglia, essenziale finestra rettangolare, che per i moderni appunto (Adolf Loos in testa) voleva significare la scomparsa dei segni distintivi di classe sulle facciate dei palazzi . E infine la tonda, l’oblò, più recentemente adottata fra gli ordini architettonici maggiori da grandi autori come Mario Botta.
Queste figure sono state disegnate su fogli da lucido, alcuni grandi e, precisa l’artista, a mano libera, con qualche misura, ma poche. Aggiunge che ad operare deve essere un braccio che apre, seguendo l’occhio e il pensiero, lo spazio per sé e per gli altri. L’idea si incarna, potremmo dire, trova nella fisicità del fare una sua realizzazione nei linguaggi del reale. Così il disegno, la dimensione eminentemente mentale che qualifica l’opera d’arte, non vede nel corpo un mero strumento, per natura imperfetto, della sua aulica manifestazione. L’idea anzi qui si invera solo facendosi corpo, braccio guidato dal pensiero ma anche dai sensi.
C’è una voce doppia che attraversa l’intera installazione. Il disegno sembrerebbe generato da una pratica un po’ accademica ma in realtà fa da guida a una manualità affatto “antiartistica” : lungo i profili disegnati vengono piantati chiodi con funzione di aggancio per i fili di lana rossa che vengono intrecciati a formare come delle grate, delle tessiture atte ad accendere cromaticamente le pareti, già costellate di forme eleganti e diverse che ora, dice ancora l’artista, si possono toccare con gli occhi e con le mani. Ancora il pensiero e i sensi. Si apre un gioco di rimandi, di metonimie, la sala sta per la casa, per l’architettura , e di metafore, la casa è il corpo, l’architettura è la testa provvista di occhi per guardare fuori, è forte il richiamo al luogo appartato atto alla meditazione, la “camera della mente”, il “castello interiore” delle mistiche a cui Letizia Cariello ha già fatto ricorso nel suo precedente lavoro. Anche i fili di lana rossa, nel lavori precedenti univano elementi diversi della stessa specie, oggetti o a lberi. Qui apparentemente chiudono, a prima vista l’artista gioca coi paradossi: disegna finestre, che sarebbero aperture, ma in realtà le raffigura chiuse, coperte da grate, a difesa di un interno contro un esterno, disturbante o magari pericoloso. In realtà una grata è un diaframma, un filtro, che se separa e distingue mette anche in comunicazione. Non a caso non le chiama windows ma gates, che in inglese significa cancello, apertura, valico, ma anche barriera, e anche, appunto, griglia. Da una grata si osserva fuori senza essere osservati, non puoi guardare le donne velate dell’Islam ma loro possono guardare te.
L’esecuzione fa emergere un’altra doppiezza: i chiodi sembrano piantati a distanze regolari che invece sono misurate ad occhio, ci sono quindi minime imprecisioni che però saltano all’occhio quando il filo rosso viene teso. Vediamo linee che da rette diventano diagonali, in alcuni punti trama e ordito si allargano creando piccoli varchi, la manualità insomma dissemina le superfici di piccoli cedimenti al disordine pulsionale. Proprio quello che l’artista vuole, il suo ordine, legato al corpo, al fare e se vogliamo alla fatica del fare, consente di contenere e contemplare il proprio rovescio.
La voce doppia di Letizia Cariello (i cui fili, abbiamo detto, legano gli oggetti a due a due) disegna dunque uno spazio ambiguo. Virtuale l’apertura, la finestra disegnata, reale, materica, solida la chiusura, i chiodi e i fili di lana. Ma virtuale e reale si rimandano l’un l’altro. Le finestre sono gli occhi dell’edificio, e i nostri occhi sono le finestre dell’anima. L’opera di Cariello vale come meditazione sull’architettura come arte del costruire e ad un tempo adotta l’architettura come metafora del nostro essere nel mondo. Lo spazio interno, la “camera della mente”, ci serve per darci una dirittura , una disciplina capace di orientarci nei multiformi stimoli che riceviamo nel mondo esterno. Le mistiche barocche trovavano il loro “castello interiore” anche nell’orto dei loro conventi, bastava disegnare un quadrato per terra e da lì “sporgersi” verso l’Altro. E una mistica di oggi, Adriana Zarri, saggiamente ha scritto che un eremo non è un guscio di lumaca.

Giorgio Verzotti

Sono sette finestre. Bifora; serliana; termale; a centina; a timpano; ovale; modernista.

Sono sette perché sette è un numero di tempo. Antico e misterioso. Sette note, sette giorni…( sette nani ?)

Sono sette spazi interiori che creano dei passaggi sui muri chiusi della galleria. Passaggi fra uno spazio interno e uno spazio esterno. Creando passaggi, rimarginano dei legami. Servono a ricostruire delle connessioni perse. A riparare ed a riaprire delle vie.

Nascono dall’amore per il disegno, per l’architettura, per il confine e per il silenzio : questo, infatti, sono le finestre. Sono possibilità di attraversamento in direzioni multiple. Possono essere attraversate con il corpo, oppure con lo sguardo. Di fatto queste finestre, riempite di un intreccio di lana che crea una grata, definiscono tutto quello di cui abbiamo bisogno sia in una casa che nel corpo.

Abbiamo bisogno di guardare fuori.

Un confine, una volta tracciato, lo si può attraversare e una grata non sempre è una prigione: nella cella ( la “camera della mente” di Santa Caterina da Siena ), si torna a se stessi.
«Fatevi una camera della mente dove voi soli possiate andare», un posto protetto da cui osservare. Non solo essere osservati.

Dunque, l’architettura – lo spazio  è sguardo. Il disegno è la matrice del pensiero. La scrittura di una forma. Lo spazio è “castello interiore”, come lo chiama Teresa d’Avila, dentro cui è possibile aggirarsi. Le finestre respirano e fanno respirare una stanza lunga e chiusa.

Le sette finestre sono state disegnate su carta da lucido, a mano libera, perché il corpo avesse il tempo di metabolizzare lo spazio cercando la ur-finestra a partire dalle tipologie più note. Ma se ne sarebbero potute trovare alter. Perché è vero che si chiamano bifore: ma c’è bifora e bifora. E c’è serliana e serliana…così come per ogni cosa c’è un prototipo interiore, preliminare ad ogni azione.

Poi sono state appoggiate alla parete e così, senza nessun colpo di piccone, sono stati aperti degli spazi. I chiodi piantati lungo i profili del disegno, sono sia telaio che andata e ritorno di un tratteggio tridimensionale: cioè l’incrociarsi dei fili di lana a creare un andamento nello spazio e, contemporaneamente, un disegno che si possa toccare con gli occhi e con le mani.
Deliberatamente sono state disegnate a mano libera. Con qualche misura, ma poche. Perché deve essere un braccio che apre, seguendo l’occhio e il pensiero, lo spazio per sè e per altri. Altrimenti sarebbero stati rilievi di finestre. Il che è tutta un’altra cosa.

Una finestra vuol dire una casa. Fino a che non si disegna una finestra, non c’è una casa. Si può fare anche a meno del tetto, ma non della finestra. Ecco, questo è il punto: più che di protezione c’è bisogno di prospettiva, e di prospettive.

Cioè di disegno. Di Castello Interiore.

Joie de vivre è un progetto che cerca di rendere visibile quella che Caterina da Siena chiamava “la camera della mente”, intendendo con questo un luogo fisico nel quale si identifica uno spazio interiore.
Le fotografie vintage provenienti dalla collezione di Cristiana Carminati sono oggetti della memoria, sia per la loro età, sia perché raccontano fatti avvenuti in un certo tempo e luogo, e coinvolgono persone di cui conosciamo non solo i nomi, ma anche l’epilogo tragico delle loro storie di vita.

Qui tuttavia, apparentemente, non è rappresentata la fine. Questo è l’antefatto del progetto: ricevo da Cristiana delle reliquie e un racconto. Il risultato è costituito da una serie di opere che ri-presentano in un nuovo unicum la ‘reliquia’ iniziale insieme a una sua copia conforme. Quest’ultima, stampata su carta Hahnemühle, è dotata di un polmone di bianco e di interventi con materiali vari e diversi fra cui ricamo a filo rosso, lacca per unghie rosse, applicazioni di spine di rose, piume, perline, spille, bastoncini dorati e altro ancora

Le due foto sono unite in una costruzione finale realizzata affiancando la foto-reliquia (appoggiata su una carta da parati francese dipinta a mano, della stessa epoca della foto) alla sua copia riprodotta, in un montaggio che riproduce la forma di un cassetto, con tanto di maniglia a fianco. Una sorta di cassetto della memoria: uno dei tanti – forse – che abitano la “camera della mente”.Così, nell’opera definitiva, la fotografia è insieme oggetto e veicolo di immagine. Vale cioè per se stessa e per la sua funzione, ma è infinitamente di più della sua stessa funzione. Presenta ciò che rappresenta e contemporaneamente mette sotto gli occhi di chi osserva, e dialoga, con Joie de vivre, una relazione fra spazio interno e spazio esterno, che altro non è che la metafora del tempo.

Da sempre intendo il mio lavoro come ascolto e aiuto. Per questo ho guardato a questi ‘pezzi’, a questi oggetti, come a come presenze materiali in grado di traghettare fino a noi dei messaggi in bottiglia. Le fotografie, infatti, diventano oggetti di memoria nel momento stesso in cui vengono scattate. Perché l’immagine che fissano, nell’attimo esatto dello scatto, è già tempo trascorso.

Il progetto Joie de vivre è stato condotto cercando di ascoltare le immagini e il carico emotivo racchiuso in ogni scena. Ho percepito ogni “quadro” come una richiesta di terminare frasi interrotte. Usando il filo rosso ho cercato di rendere evidente un campo emotivo con la capacità che hanno i materiali e le immagini di concentrare in sé diversi livelli di comunicazione e di significati, oltre alle didascalie e alle descrizioni. Ho aggiunto altri materiali ma non l’ho mai fatto in modo decorativo. Anzi, ho adottato un rigore durissimo nel capire quali oggetti andassero aggiunti, come e dove.

Ho perseguito l’intuizione di un’opera libera dalle definizioni tecniche che rispettasse la natura della fotografia come presentificazione di un oggetto interno, così come oggetti interni sono le emozioni e i sentimenti: elementi cardine che guidano ogni messaggio finale. Nella loro presenza materiale ci sono opere che sono sia installazioni, che assemblages, che fotografie. La prima “reliquia” è presentata in un cassetto singolo con maniglia in testa, su carta da parati a righe vintage e con intervento diretto con ricamo rosso sulla foto originale: è la “madre” del progetto, da cui sono nate le altre venti coppie – di originale e suo ‘rimbombo’ – presentate per la prima volta in occasione di MIA.

Si tratta di veri e propri cassetti della memoria, sia in senso letterale che simbolico, e mantengono intenzionalmente la tensione fra le due dimensioni per poterla condividere e rivivere nello sguardo di ogni “ascoltatore “dell’opera.

Volumi è un progetto sulla geometria ispirato alla idealizzazione dello spazio geometrico che si è affermata nel rinascimento grazie al recupero della dimensione filosofica della geometria che aveva caratterizzato l’antichità greca.
Questo progetto nasce dall’evoluzione di una mia prima riflessione sulla cornice, sul suo valore e sulla necessità di predisporre per le mie fotografie delle cornici che fossero ,più che montaggi, strutture scultura cioè pezzi di arredamento come un tavolo o una sedia e, soprattutto, degli elementi mediatori fra lo spazio tridimensionale tangibile degli spettatori e lo spazio tridimensionale metaforico delle mie fotografie.

Le cornici-struttura sono diventate delle finestre che, come un tempo nelle pitture del rinascimento italiano e poi nelle pitture fiamminghe e nord europee, saldano il disegno, la pittura, la fotografia, alla tridimensionalità della stanza e in questo modo creano una continuità fra lo spazio mentale e quello fisico: esattamente quello che io cerco nel mio lavoro: la relazione fra spazio interno e spazio esterno come metafora del tempo.

Proseguendo in questo studio, ho cominciato a disegnare dei plinti che sono solidi ispirati da un lato agli studi matematico geometrici di Luca Pacioli (De divina proportione) e alle riflessioni disegnate nel De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, e dall’altro ai capitelli delle chiese gotiche del nord Europa.

I volumi sono pensieri sullo spazio che vengono trasportati però nella dimensione domestica: infatti sono pensati per essere installati in ambienti non monumentali.

Possono essere composti fra loro in sequenze di modelli uguali o differenti. Possono essere installati da soli, così come sono, oppure fingere da piedistallo per oggetti che vengano appoggiati sul piano orizzontale, alla sola condizione di essere in  coppia: due bicchieri due vasi con fiori ( anche diversi ) due brocche etc etc.

L’opera è dinamica, cioè  la coppia di oggetti installata sul Volume non è vincolante. Ne nel tempo della sua permanenza sul plinto ( che diviene piedistallo ) ne nella scelta. Raccomando di installare i volumi un poco in alto, così da dover sollevare appena il mento per osservarli.

C’era una volta un violoncello per bambini, arrivato misteriosamente a me in studio una sera di tre anni fa.
Antefatto, Autunno 2012
Il violoncello, oggi “Red Goldberg”, arriva una sera con un signore sconosciuto che suona alla porta del mio studio. Mi dice che sta lasciando uno spazio nel secondo cortile dello stabile. Mi dice che vuole che quello strumento “accidentato” resti a me. In un certo senso me lo affida come una madre
in fuga lascia un orfano. Non so come abbia saputo di me o di quello che faccio. Io lui non lo avevo mai notato prima di quella sera.
Il violoncello resta semi-dimenticato per quasi due anni in un angolo dello studio. Ogni tanto ci passo davanti, ma aspetto. Non mi viene in mente nulla. Lui non mi parla. Non chiede, non piange. A volte mi pare quasi di averlo abbandonato. Suonare ormai è impossibile per lui. E’ come un reduce di
guerra che ha perso una gamba. Una protesi forse, ma di tornare a correre come una volta non se ne parla. Finché una sera mi sento chiamare, e vedo al posto delle corde sopravvissute e smollate, i fili rossi di lana: ma certo! Ecco. Smonto, tolgo, rimetto le chiavi, rimonto il ponticello. Ha i fili di lana
rossi. Ora suona rosso. “Red Golberg”, in onore alle Variazioni Goldberg di Bach suonate da Glenn Gould (che mi hanno sempre fatto pensare a Barry Lyndon di Kubrik). Variazioni appunto. Poi una protesi da muro di acciaio lucido. Gliela disegno, la facciamo. E’ rinato. Ammirate.
Del suo primo papà ancora oggi non so nulla. Nemmeno come si chiami. Non può nemmeno godersi lo spettacolo del piccolo violoncello rinato opera, come in una favola di Oscar Wilde.
Due anni dopo…
Siamo all’opening della mia mostra negli studi di LCA.
Gli uomini AXA ART osservano, con un velo d’ironia, che di strumenti incidentati inutilizzabili e diventati di colpo di nessun valore ne hanno diversi. Glieli chiedo immediatamente. “Dateli a me!” Gli dico. Mi prendono sul serio (ma devo richiamare diverse volte…).
Qualche mese più tardi…
Recupero negli uffici della Compagnia violoncelli, archetti e una strana cassa di risonanza trapezoidale costruita a mano nei boschi della Val di Fiemme (proprio dove nascono gli alberi che danno il legno per i violini Stradivari). Se proprio ci tengo li posso comprare a un prezzo simbolico di un euro l’uno. Gli stessi che prima degli incidenti (i sinistri dicono qui, ma io sono mancina) valevano qualche migliaio di euro.
Del committment di Massimo Minini non mi sorprendo minimamente. Anzi, devo amministrare con sobrietà le parole. Tanto ha già capito tutto prima che io arrivi al verbo e ci sono abbastanza eversione e ribaltoni linguistici perché colga e abbracci il mio progetto. La Galleria sosterrà l’opera.
Alla fine Carillon
L’installazione è composta da due violoncelli, due archetti, una cassa di risonanza e due dischi, di cui uno di acciaio satinato opaco con inciso il calendario e uno ricoperto di velluto liscio rosso con foro al centro da cui passa un pistone cilindrico forato per il passaggio di due archetti. I pezzi sono fissati a
parete per mezzo di fasciature, perni e piastre di acciaio lucido costruiti su disegno. Ogni parte componente l’installazione è indipendente dalle altre per il fissaggio e tutte sono assemblate a muro secondo uno schema predefinito di distanze fra loro.
I due violoncelli sono dotati di un dispositivo meccanico che permette al pubblico di fare ruotare per un arco di cerchio gli strumenti muovendoli dal manico e facendo perno su un punto situato dietro il corpo-cassa. Il rientro in asse avviene lentamente. Il dispositivo meccanico non è a vista. Nessun elemento elettrico contribuisce al movimento delle parti di Carillon. I violoncelli emettono un suono durante la fase di rientro in asse, ripercorrendo all’indietro la traiettoria curva. Si tratta di una musica “cosmica” registrata in natura e immediatamente riconoscibile dall’orecchio come un parente dei rumori del vento, delle cascate, del mare, del rotolare delle pietre… Ovverosia: un suono familiare ma misterioso, archetipico e profondo che rimanda a fonti di grandi dimensioni.
Predisposto per entrambi i violoncelli in due tracce diverse e registrato da dispositivi spaziali, l’impianto riproduce la musica emessa dagli anelli di Saturno e da alcuni pianeti durante il loro movimento. Il corpo dei due strumenti funge da cassa di risonanza al file sonoro.
L’insieme si presenta come un grande giocattolo-carillon in cui le parti incidentate sono letteralmente assistite dalle integrazioni di acciaio, esattamente come una gamba tronca è assistita da una protesi lucida e moderna.
I movimenti curvi richiamano per intuizione l’idea di tempo che in questo caso è sia il tempo scandito dal movimento meccanico del ritorno in asse degli strumenti, che quello cosmico espresso dall’impianto sonoro. Un tempo scritto è quello del calendario, ricorrente nel mio lavoro, inciso su uno dei dischi, mentre il tempo della musica suonata dai violoncelli prima degli incidenti si amplia in una più vasta idea del passaggio che ingloba, insieme alle altre, la dimensione del pentagramma.
Il velluto rosso che ricopre il disco forato fa pensare ai rivestimenti d’arredo dei teatri e forse anche alla lava o al sole che tramonta.
In altre parole
I corpi degli strumenti musicali sembrano davvero persone.
Invitano a riflettere sul concetto di invalidità e su quello di responsabilità. “I care”.
Cosa vuol dire veramente essere invalido, cosa essere valido. Un corpo mutilato è ancora un corpo: e perché allora un violoncello incidentato mi ricorda un soldato ferito? Penso che sia la questione dell’uso. Penso anche al concetto di valore. Cosa vale, cosa no. Non credo si sappia ormai che valga
ciò che si usa. O almeno dovremmo metterci d’accordo su cosa si intenda per uso. Questi strumenti valevano cifre a tre zeri e ora valgono un euro l’uno. Ma non si possono buttare via. Per fortuna.
Penso che se non si buttano via, allora ne siamo responsabili in qualche modo. Grazie al cielo.
Almeno esistono fra i cespiti dell’Agenzia. Però non hanno più voce, non possono più parlare.
Anche “Red Goldberg” non poteva più parlare fino a quando non ha chiesto di parlare in un altro modo.
Il mio lavoro consiste in questo. Io ascolto e aiuto. Bisogna fermarsi prima di aiutare troppo però, perché si rischia di invadere il mistero.
Questo progetto dimostra che non sappiamo nulla del concetto di uso e di valore, non sappiamo dove si nasconda il valore e nemmeno quale sarà la parabola di vita. Nemmeno degli oggetti. Non sappiamo neppure cosa avremo e avranno da dire le cose intorno a noi, perché potranno sorprenderci e cambiare voce e cantare in un altro modo. Questo non è male. Possiamo saperlo, a volte, se la smettiamo di parlare sempre noi. Allora tutto quello che intorno a noi viene detto potrebbe diventare a tratti percepibile. Potremmo intuire brandelli di discorsi segreti che non sentiremo mai del tutto perché la nostra vista è limitata e il nostro udito e la nostra intelligenza pure. Potrebbe anche diventare una cosa positiva: salva il mistero e impedisce di perdere il senso delle dimensioni, l’unità di misura dell’armonia che regola tanto i suoni quanto le forme.
Tutto esprimibile in numeri e rapporti geometrici. C’è più sorpresa e poi ci si diverte.
Questa è una delle chiavi di lettura di Carillon, nata grazie all’affezione di tutti quelli che hanno preso parte all’opera, tenendo lo stesso registro, la stessa chiave di pentagramma, ciascuno dal suo posto.
Si domanda l’assicuratore: dove finisce il mio ruolo? Chi m’impedisce di prendermi più responsabilità di quelle a cui sono legato da contratto? Il pezzo è incidentato, è andata male. Ora va nei depositi.
Invece no. Ora parla di nuovo, in un altro modo, e magari si diverte.
Altra chiave: passione per la rivoluzione vera. Troppo facile quella del ruolo eccentrico e chiusa lì. Il vero carbonaro si confonde fra la folla, non dimentichiamolo.
Chi non ha paura della rivoluzione non ha paura dei molti significati possibili, dei cambi di scena.
Fatto non necessariamente pericoloso perché destabilizzante. Direi piuttosto una speranza e una garanzia. La cura chiama la responsabilità. Dove finisce, fino a dove. Fino a quando.
Il confine non è il mondo, il confine è lo spazio. Del resto gli Angeli l’hanno detto, che i Pianeti suonano.

Le opere raccolte per il progetto presso lo Studio Lega Colucci, nell’apparente varietà di linguaggio, rappresentano tutte uno
stesso tema, che è il centro della mia ricerca.
M’interessa concentrarmi sulla relazione fra il tempo e gli oggetti e sempre più m’interessa prendermi cura del tempo e degli
oggetti.

Quello che è esposto è uno stratagemma di contemplazione della realtà che, attraverso una domanda sul tempo, sottintende una
domanda sull’effettiva esistenza del reale.

Così come nel Seicento i pittori olandesi hanno imparato a seguire il passare della luce sulle cose, la trasformazione dei corpi che avviene inesorabilmente sotto i nostri occhi a una tale lentezza che crediamo di osservare scene ferme, gli oggetti presentificati
nelle mie fotografie ricamate ed estratti dalla scena del reale negli altarini, sono strappati per un istante al fluire del tempo.

Il filo di lana rossa li aiuta e li cura, nei punti in cui vedo affiorare la fragilità. L’altarino, come una reliquia, li mette al
sicuro. Le cornici non sono un sovrappiù al lavoro: esse partecipano al compito di prendersi cura di quella porzione di
mondo che è nelle foto. Per questo le ho disegnate apposta e non si da foto senza cornice. Essendo infatti anche le foto delle cose a loro volta.
Così mi pare diventi possibile guardarli con tempo rallentato, come in un fermo immagine alla Barry Lindon.

I calendari e i ricami sono altre spoglie sotto cui si materializza il tempo. I puntini rossi ricamati sono un ritmo che
proietto visivamente sul lenzuolo e poi ricamo, come un battito del cuore figurato. I calendari li scrivo a penna sul lenzuolo o
li incido nel ferro. Sono i nomi dei giorni della settimana e i numeri delle date. Sempre del tempo futuro, quello che manca.
Qualcuno dice che sembrano i tronchi degli alberi tagliati. Ma non li ho scritti così apposta.

Si tratta di una serie caratterizzata da file di puntini rossi su tela ricamati e poi montati su telaio.

Si chiama “excercises” perché rappresenta la risultante di un faticoso esercizio performativo costituito da procedimento attraverso cui viene realizzata l’opera.

Dopo aver steso la stoffa sul pavimento senza utilizzare strumenti di misura di alcun tipo, stabilisco la dimensione dello spazio che separerà un puntino dall’altro, questo intervallo risiede solamente nel mio occhio interno e lo riporterò verificando solo con l’aiuto dello sguardo l’uniformità delle distanze fra i puntini rossi e il parallelismo fra le righe di puntini che vengono a delinearsi una sotto l’altra con il procedere dell’esercizio.

Il processo di segnatura delle sequenze in fila dei puntini avviene una volta che il ritmo della mano che appoggia la punta di un pennarello rosso a segnare ogni puntino va in sincronia con il ritmo del mio respiro a sua volta sincronizzato con il battito del cuore mentre lo sguardo deve restare puntato sul calibro della distanza decisa prima di iniziare l’opera e fissata come dato della vista interna.

Ogni correzione e aggiustamento della posizione dei puntini è volto a evitare perdite della linearità retta della sequenza in riga e della regolarità e precisone delle distanze fra i puntini. Le correzioni sotto forma di altri puntini vicini a quello di cui si vuole correggere la posizione vengono segnate con lo stesso pennarello.

Errori e puntini nella posizione corretta vengono infine tutti ricamati a tela non ancora fissata sul telaio nella fase successiva della performance che condurrà all’opera finale.

La fase del ricamo è un’altra delle operazioni che non posso delegare ad altri e rientra nella
partecipazione fisica e respiratoria nonché ritmica delle funzioni vitali del mio corpo che entrando in risonanza con il tracciato dell’opera vengono letteralmente trasferite sulla materialità del lavoro finale. Come il cuore batte ad un certo ritmo e il respiro e il battere delle ciglia e ogni funzione del corpo materico e di tutti gli altri corpi avviene secondo un ritmo e una cadenza che è anche musica. Ecco perché si chiamano “excercises” queste performances su tela.

Una volta finito il ricamo, sempre io monto sul telaio che ho fatto costruire apposta la stoffa ricamata. Riservo a me queste operazioni perché rappresentano delle possibilità di micro-decisioni che accompagnano l’equilibrio dell’opera come le oscillazioni dell’asta accompagnano il cammino del funambolo ogni volta che mette i piedi sulla corda. Incredibilmente l’opera risponde con la sua parte posteriore. Il retro della tela che sembra a tutti gli effetti il tracciato di un elettrocardiogramma.

Se pensate di assistere a una videoripresa della piscina comunale di Pontresina, dove una giovane donna – l’autrice medesima -, in un costume da lei disegnato, si fa una bella nuotata con la colonna sonora di musica rinascimentale ( dopo essersi fatta però affliggere da bende,cappuccio, videocamera e laringofono) beh, vi sbagliate di grosso.

Certo che Cariello fende l’acqua, certo che c’è la scarica dinamica liberata nel moto ritmico, in cui il decorso viene cadenzato dalla successione regolare di fasi opposte; ma c’è, e prende il sopravvento, una forma di sragionevolezza che costituisce una regola altra, una prospettiva differente e diversa sul mondo reale.

E’ inutile interrogarsi sulle egolatrìe, fantasie compensatore, bisogni coatti, atti mancati, azioni interdette, stravaganze perturbanti. Perché, da che ha origine tutto questo? Dall’inseguimento, credo, dell’idea dell’amore. Poiché l’Arte questo è : un’ombra o un’eco dell’amore, un tentativo d’incarnarlo, un tentativo destinato a suscitare spesso solo maceranza dell’anima, trascinando la perdita della unica vera meta di noi tutti.

Letizia Cariello è difficile. Parrebbe non rivolgersi al pubblico, a chi guarda, tracciando, come fa in “ Hallenbad Project “, gesti discontinui in una dimensione arbitraria. Dunque, c’è una storia piccola ( che è anche una piccola storia ) di una nuotatrice che si cala in acqua, quasi sommozza, riemerge, ridiscende nella vasca, risale. A questa storia Cariello fa le glosse : la nipote di Bernard Berenson in un celebre film di Kubric; le madonne medioevali in legno e in pietra; le “Cholmondeley Ladies”, con i pupattoli sotto la gorgiera seicentesca, e ancora e ancora.

Glosse per 21 minuti e 26 secondi.

“ Quando si nuota si interrompe il montare dell’ansia, la respirazione affannosa…i pensieri non si affastellano più e si presentano uno alla volta…”, dice Cariello. Questa storia, la piccola storia della nuotatrice, viene spezzettata ( la deposizione manierista di Carucci, i corpi che nuotano, i rosari verdi e gialli dei galleggianti, i tatuaggi sulla pelle del corpo, i figuranti di una vera e propria troupe che la fotografano, l’aiutano nella vestizione, le montano la telecamera sul cranio ) e viene lasciata, la storia, apparentemente senza né capo né coda

( il video inizia con le tessere di ceramica della vasca su cui scorre l’acqua e termina con l’edizione ottocentesca del “ Lo specchio di vera penitenza “ di F.J.Passavanti Fiorentino).

Sembra, Cariello, dare per scontato che chi guarda il video già conosca il prima, il dopo e il perché del suo lavoro; e che allo spettatore interessi solo afferrare gli indizi visivi, cioè quelle grida e quei sussulti inquietanti che indicano come in un certo punto e in un certo momento dello scorrere delle immagini e dei suoni si trovi, nascosta, la chiave della storia; o addirittura un enigma. L’autrice ha guadagnato, mediante il suo racconto schizoide, elementare, mite e felpato, non solo uno stile visivo ( diciamo che nel suo caso è faccenda già sperimentata nelle opere che da quattro anni a questa parte l’hanno rappresentata nelle gallerie e nei musei) ma una sua visione del mondo. Iterare le bracciate nelle corsie con i silenzi o con i madrigali di Gesualdo da Venosa o con i brani del diario del Pontormo significa, in questo caso, eludere, essere reticente e suggerire le scoordinate di visione, ascolto e lettura, non centrandole sul personaggio-autrice che si prepara a nuotare e poi nuota e poi esce all’asciutto e poi annuisce, parlotta, si accoscia sul pavimento accanto a uno dei famigli. Significa, invece, spostare l’attenzione sul collaterale, sulla periferia del luogo che la ospita, su ciò che accade nei dintorni di lei, sul teatrino della vestizione ( e le polaroid appena scattate che la raffigurano di profilo, davanti, e di spalle; e il tecnico che le monta la telecamera sul cappuccio nero, intanto che lei appare come se fosse torturata – e via con le voci dei madrigali – ; e le bende bianche sotto la cuffia come nel famosissimo dipinto di Caterina da Siena eseguito da Andrea Vanni o come nell’autoritratto di Rudolf Schwarzkogler ).

Cariello traccia i suoi percorsi erratici e impone allo spettatore una comunicazione ostica, un rapporto di elaborata e programmata inconsistenza, indecifrabile spesso ma sempre studiato nei minimi recessi. Come se la scelta di questo esercizio corporale non avesse importanza più che tanto : l’artificio del cerimoniale in piscina è poco più che un pretesto per additare sovrapposizioni e trame improbabili, estrosità linguistiche astratte e smedesimate, in cui far apparire la sua faccia sorridente ma affetta da tremore Kirkegardiano o la copertina de “ I sequestrati di Altona” di Sartre o udire le voci di fondo con l’eco tipico dei luoghi dove si pratica lo sport. Così come pretesto è essere obbligati ad ascoltare, sullo sfondo del rumore dell’acqua, interiezioni, voci e suoni dispersivi, la lettura delle pagine di Teresa D’Avila o di Hannah Arendt o i responsori o i mottetti di Gesualdo. Lo spettatore è sottoposto, con adolescenziale insistenza, ad una sorta di agopuntura visiva e sonora che lo costringe ad una tensione interpretativa nel cercare di ordinare le molteplici sollecitazioni disseminate lungo il percorso. Dovrà tentare di decifrare l’ardua e annodata complessità di tutto l’insieme. E’ proprio un’inconsistente ( in apparenza), sequela di visioni cucinate con una serie di piccole azioni di finta semplicità, artificiali e pretestuose, che servono a trasformare “Hallenbad” in un gioco destabilizzante. Fruscii, non-sense, lacerti sconcludenti : forse è questa la storia.

Cariello non conclude.

Questa sua fissazione sul luogo-piscina e sulla figura della nuotatrice sottolineati con acribia – la marca della cuffia, la cintura gialla, l’accappatoio bianco, i ragazzini che nuotano, l’andare avanti e indietro nelle corsie, la telecamera avvitata sul cappuccio nero, gli occhialini di plastica -, il tutto proposto con intensità caparbia un tantino mostruosa, evidenzia un altro carattere tipico della Cariello : la grande estraneità ( o distanza o indifferenza ) di questi minimi accadimenti o minimissimi dati che non si incrociano, né contraddicono, né si accompagnano ma sembrano vivere della loro esclusiva e inspiegabile vibrazione. Inoltre, la sottolineatura fanatica del frammento, dei gesti, dei rumori e dei suoni, implica anche un processo di ironizzazione e, nel contempo, di contestazione di questa.

Naturalmente di ironia metafisica si tratta e di contestazione come chiamata a testimonianza.

In fondo Cariello ci prende un po’ in giro. Si guardi all’andirivieni del gruppo di tecnici che la segue come se si trattasse di un’impresa bellica o di un gioco di gruppo o di una gara di caròle.

Alla faccia di una qualsiasi coerenza ( ma Cariello lo sa ?) l’autrice si trastulla con una follia quieta che le fa mordere e masticare il margine delle cose. Le fa aggirare i nodi, scivolare sulle tangenti del tema, del tema delle sue opere che è, sostanzialmente, la paura e la fatica del vivere. In questo si è specializzata. Ne cava suggestioni lancinanti, coniugazioni e congiunture impervie, disapparentamenti misteriosi. Recupera, con esasperato narcisismo, i versi del principe di Venosa, le figure del Pontormo, le “relaciones y mercedes” della mistica di Avila, le lettere di Caterina, la perplessità e la voglia di seduzione della nuotatrice; e spezia tutti questi istanti come autonomi. Forse attinge a tutto questo repertorio solo per capire – lei medesima – cosa non mostrerà. Dunque una presenza perturbante che, una bracciata via l’altra, non mostra quasi nulla. Una nuotatrice spuntata dal nulla, senza storia.

Ed è qui che non è mai dichiarato, esplicitato come la malìa di questo non-personaggio consista nei vuoti, negli echi, nelle fanfaluche, nelle censure, in una innocente perversione, incline ad una ben educata brama di dissoluzione, ad una morte cioè innominata, che accompagna l’opera tutta di Cariello.

“Abysmal, exquisite in tenderness” : si distempera piangendo nell’acqua della piscina la nuotatrice dal volto bello e provato, la giovane donna smarrita – forse meno forse più di una donna – assediata da forme di vita che sente ostili?

Cariello si scarna sul particolare, il dato minimo, la cosa irrilevante : lo lascia appena apparire, come in penombra, il tema essenziale di cui sopra.

Solo poco a poco si capisce ( e si sente ) quanto e acuta e strategica sia la tecnica dell’eludere, del deviare; il continuo spostamento di attenzione che porta a quei sapidi echi e rumori e suoni banali e significanti insieme che sono “Hallenbad”.

Maestra della digressione, mente sapendo di mentire sul vero tema trattato. Si guarda bene dall’afferrarlo e espellerlo in modo diretto : sarebbe ordinario.

Solo se lo spettatore si piegherà a non vedere e a non conoscere – ma solo a intuirlo – il tema centrale, il punctum dolens ( di tutti noi, peraltro ), solo se si lascerà ingannare dagli itinerari ambigui della sua piccola storia, potrà accedere a quella limitata ma ustionante parte di esistenza che Cariello ha deciso di offrire. Che è, probabilmente, l’essenza stessa del linguaggio.

Questo è quanto. Ma su Cariello c’è ancora molto da dire, credo; e anche su “Hallenbad”.

Lea Vergine